Orani, 16 nov 09 (La Nuova Sardegna) - Punto primo. Il Cristo di Giovanni Columbu non è biondo e non ha gli occhi azzurri. Nel film «Su Re» che si gira in qesti giorni nelle campagne di Orani, Gesù somiglia invece alla figura messianica annunciata dal profeta Isaia nell'Antico Testamento («...senza grazia, senza beltà da attrarre lo sguardo, un aspetto da non doversene compiacere»). La scommessa del regista è di quelle forti ma si basa su un convincimento antico e profondo: «La bellezza esteriore non potrà mai sostituirsi all'intensità della recitazione».
Fiorenzo Mattu viene da Ovodda, ha 34 anni, capelli corvini e occhioni neri. Di professione fa la guardia giurata in quel di Olbia. Nel primo film di Columbu - Arcipelaghi - faceva la parte del cattivo, in questo avrebbe dovuto interpretare il traditore Giuda. All'ultimo momento ha preso il posto di un suo compaesano, Giovanni Frau, ieri Cristo designato e oggi apostolo prediletto di Gesù di Nazareth: Giovanni l'evangelista, figlio di Zebedeo e di Salome. «Intendiamoci bene - spiega Columbu - anche Giovanni Frau era molto bravo». Ma al regista di «Su Re» serviva un viso ancora più sofferente, uno sguardo intenso che trasmettesse al massimo grado il dramma della passione e morte in croce del figlio di Dio.
La scommessa di Columbu, improvvisa e inattesa quasi come una nascita insperata, è fiorita in un baleno, nel corso di un vertice con i suoi principali collaboratori: in primis l'aiuto regista Mario Raoli di Anagni («sono compaesano di Papa Bonifacio Ottavo, sì, quello che Dante ha collocato all'inferno da vivo») e il responsabile della produzione Antonio Cauterucci. Decisione sicuramente rapida ma forse non facile, anche se i diretti interessati tendono a minimizzare. Un Cristo della serie diversamente belli? Risponde Giovanni Columbu: «Un Gesù non bello, o bello in modo diverso, è un richiamo importante ai valori veri dell'esistenza umana: beati i puri di cuore, i sofferenti, i malati. Il Dio si manifesta solo alla loro visione».
Punto secondo. Il Cristo di Giovanni Columbu parla poco, il minimo indispensabile. «Ma affida il suo messaggio ai silenzi e all'intensità degli sguardi», chiarisce il regista. Sui silenzi, per dirla in altro modo, si gioca una parte decisiva del messaggio di «Su Re». Si ha l'impressione che il regista non disdegnerebbe un film muto. Ma se Gesù Nazareno è laconico, ancora meno loquace del figlio è la Madonna, Maria figlia di Anna e Giacomo: ruolo affidato a una formidabile mater mediterranea come Pietrina Menneas di Orgosolo, figura di impatto indicibile che si è rivelata come una visione magica in «Arcipelaghi» dello stesso regista di «Su Re» e in «Ballo a tre passi» di Salvatore Mereu. Parlano poco anche i sacerdoti e gli altri attori comprimari (lo scrittore Gavino Ledda nel ruolo di Càifa, l'imprevedibile Maurizio Melis di Olzai e il suo compaesano Tonino Murgia) che si limitano a formulare laconicamente le loro richieste di morte al governatore romano della loro terra quasi senza nemmeno motivarle al di là di affermazioni generiche. Altrettanto fa il cantore del coro a tenore «Remundu de Locu» di Bitti Mario Pira, subito a suo agio in un ambiente del tutto nuovo per lui e accolto calorosamente dal resto della troupe.
Questo nel rispetto - rigoroso ma nient'affatto scolastico - del pentalogo non scritto della Sardegna interiore, come delle nazioni indiane del Nordamerica: 1. Ascolta, guarda e taci (isculta, abbàida e caglia). 2. In una bocca chiusa non entrano le mosche (in buca tancada non b'intrat musca). 3: Il parlar poco è segno di saggezza (su faeddare pagu sabidoria meda). 4. Se neghi, non si possono fare verbali (dae su nono non si tinghet pabiru). 5. Su cento parole che pronunci, due soltanto hanno valore (de peràulas tuas, chentu nde balen duas).
Punto terzo. Il film è girato interamente in lingua sarda. Aspetto estremamente delicato, certo, ma anche potenzialmente decisivo per il successo del film: oggi più che mai. Ma nelle intenzioni del regista e dei suoi collaboratori è soprattutto lo spirito della nostra lingua e il suo declinarsi tra l'espresso e il sottinteso a governare la scena e a darle la freschezza delle soluzioni originali. Esistono, tuttavia, difficoltà oggettive per l'utilizzo armonico di un medium inusuale, prima fra tutte la netta differenza di sintassi tra sardo e italiano, insidia permanente anche per i sardoparlanti nativi. Ma il regista si mostra costantemente disponibile ai suggerimenti e ai correttivi in corso d'opera. L'altra faccia della medaglia consiste nelle marcate differenze di suono tra le due lingue, che forse finiscono con il favorire proprio il sardo.
Per il resto, finora il clima del set non conosce perturbazioni. Dopo i primi giorni a Martis nella chiesa semidiroccata di San Pantaleo, la troupe di Columbu si è trasferita nelle campagne di Orani ricche di querce da sughero, nei pressi di una chiesa dedicata a San Sebastiano. Ma come il santo martire cui è intitolata, la costruzione ha sofferto di peripezie lunghe e ormai inenarrabili perché non esistono documenti certi al riguardo. La leggenda dice che i lavori sarebbero stati più volte sospesi, dal 1600 in poi: i muratori impegnati sarebbero tutti morti a cadenze inesorabili.
A scongiurare i venti contrari pensano in primo luogo le donne-guida del gruppo, dalla costumista Stefania Grilli, alias «occhio dell'Altissimo» (nulla sfugge alla sua sovrintendenza) alla segretaria di edizione Elena Pietroboni, detta «la fatina» per la sua disponibilità a soccorrere sempre il prossimo nella maniera migliore. Anche lei preferisce i silenzi alle parole. Ma li illumina di sguardi glauchi, più eloquenti di qualunque lingua.
PAOLO PILLONCA