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Lunedì 28 aprile 2025 - 08:55

«NOI, IN TRAPPOLA NELLA GIUNGLA DEI TASSI» (NUOVA SARDEGNA)

Decimoputzu, 26 nov 09 (La Nuova Sardegna) - Il viaggio nella giungla dei tassi agricoli da capogiro comincia qui, a Decimoputzu, nel cuore della Sardegna dalla terra più fertile, in una casa al numero 87 di via Villacidro. «Maledetto il giorno che ho firmato per quel prestito da 87 milioni, vent'anni fa», dice Vincenzo Piras appoggiato al caminetto. «Da allora non ho più avuto un momento di pace - aggiunge - E adesso sono riniziate le esecuzioni giudiziarie per le aste».
Retroscena. Vincenzo è uno dei tanti contadini vessati dai tassi bancari prodotti, come mostri incontrollabili, da una legge regionale, la famigerata numero 44 del 1988. Nata per agevolare il lavoro nell'agro-zootecnia, la normativa è stata poi bocciata dalla Ue. Che ne ha annullato i benefici. Riportando così gli interessi alle stelle: in certi casi dal 5,6 a quasi il 20%.
Il provvedimento si è dunque rivelato un boomerang micidiale. Per sanare le controversie e metter fine ai contenziosi, dopo la mediazione della Regione, non sono bastati due anni di estenuanti negoziati, l'intervento dell'agit-prop Beppe Grillo, le occupazioni dei municipi, gli scioperi della fame, i presidi ancora oggi in atto alla periferia di Roma, simbolo di una denuncia estesa all'intero Meridione. Col movimento Altragricoltura sempre in prima fila.
Meccanismi infernali. L'ultima sorpresa negativa è che, dopo due cicli di sospensioni possibili grazie ai fondi stanziati dal parlamento per l'abbattimento delle spese legali, nell'isola le aste sono ripartite. E in grande stile. Un quadro che, secondo stime per difetto, interessa più di mille famiglie. Non solo nel Campidano. Anche in diverse aree della Barbagia, nella Nurra, in Gallura. Con effetti che provocano angoscia, disperazione, amarezze.
Vincenzo Piras e la moglie, Fedela Ena, all'inizio del loro calvario erano ancora giovani. Adesso hanno 60 e 56 anni. «Questo meccanismo infernale riesce a rovinarci ogni giorno di festa con le nostre tre figlie - spiega la donna - Quando vengono a trovarci, puntualmente, arriva una di queste buste verdi: la brutta notizia è una certezza. L'ultima volta ci hanno detto che la procedura per mettere in vendita i nostri beni è ripartita». «E quello che mi rode di più è che non capisco mai cosa resta da pagare», prosegue il marito nella cucina-soggiorno della palazzina di famiglia, anche questa all'incanto così come i sette ettari di terra e serre.
Accordi. Negli ultimi anni il Banco di Sardegna e la Regione hanno dato vita a una intesa per esaminare le pendenze e mettere una pezza dove possibile. «A noi però nessuno ci ha mai contattato - spiegano con delusione i coniugi - E allora, anziché i pomodori, non ci è rimasto che coltivare prezzemolo, bietole, rucola, spinaci: almeno per garantirci la sopravvivenza economica».
Fedela Ena è in pessime condizioni di salute. Le sofferenze bancarie per lei si sono tramutate in sofferenze dell'anima: l'ha colpita una forma depressiva da cui fatica a liberarsi. «E mercoledì dovranno operarmi per la terza volta, ho un'ernia», mormora cercando di trattenere le lacrime.
Il marito la incoraggia. Ma è a sua volta provato, invecchiato prima del tempo. Partecipa alle assemblee. Marcia nei cortei di Altragricoltura. Lotta con gli altri serricoltori colpiti dalle istanze di sfratto. Continua, come e quando può, ad andare in campagna. «Ma non sono di ferro, e questa non è più vita», commenta sconsolato.
Incubi. I Piras si guardano negli occhi, come per farsi forza l'uno con l'altro. Nella stanza col televisore acceso sin da mattina, davanti ai ceppi che scoppiettano nel camino, la tensione si tocca con mano. Loro vorrebbero dimenticare tutto, cancellare quelle macerie che gli sono crollate addosso. Ma è impossibile. Quasi ossessivamente sono costretti invece a rammentare passaggi e scadenze. Come di fronte a una maledizione.
«È un disastro che noi contadini non abbiamo voluto - ricordano - Ci strozzano con continue richieste di liquidi. E gli ufficiali giudiziari non ci lasciano in pace». «Io non ho il coraggio di violare la legge - spiega Vincenzo - Ma quando sono venuti a farci visita per l'ennesima volta, ho visto mia moglie afferrare uno degli attizzatoi per il fuoco. Se non l'avessi fermata, non so che cosa sarebbe successo».
Drammi. «Fedela era era sana, forte - racconta il marito - Un giorno sono venuti a pignorarci i frutti da cogliere. Da quel momento ha iniziato a cedere, si è ammalata. Sino ad allora vivevamo felici. Non ci mancava l'indispensabile. Le nostre figlie, che oggi hanno 32, 30 e 29 anni, hanno dovuto andare a lavorare fuori casa, lontano dalle campagne».
«Quando mi sono sposato, ho pensato di comprare un terreno che mio padre aveva in affitto: come lui, nel 1976, lavoravo in campo aperto - incalza Vincenzo, mostrando le carte che attestano le ricevute dei pagamenti - Qualche tempo dopo, con mia moglie, abbiamo messo su una serra di legno-plastica: 1200 metri quadri coltivati a zucchine e pomodori. Fuori, invece, abbiamo continuato con melenzane, carciofi, barbabiotele da zucchero, finocchi. Abbiamo lavorato bene. Siamo riusciti a mettere da parte qualche soldo».
Intrecci. Poi esplode il boom delle serre di ferro e vetro. Un bisogno indotto, secondo ciò che sostengono oggi gli specialisti. Troppo costoso a fronte dei ricavi derivabili da colture povere come i pomodori. I Piras, però, come tanti altri in Campidano, cercano di migliorare la produzione. Si buttano in quello che pensano sia un affare: «Presentiamo il progetto all'Ispettorato agrario. Investimento complessivo per 177 milioni di lire. Metà con un mutuo a fondo perduto. L'altra metà con un prestito da restituire al Banco. Superficie coperta di 2500 metri quadrati. Nel 1986-'87 la situazione inizia a farsi zoppicante. Puntiamo sull'agricoltura biologica, senza concimi chimici. Le cose vanno peggio. A fine stagione perdiamo 20 milioni e un anno di fatica. Siamo costretti a vendere 450 quintali di pomodori a 50 lire il chilo. Nel frattempo per riscaldare le serre (temperatura costante di 13 gradi, notte e giorno) consumiamo 42mila litri di gasolio in pochi mesi. Un'enormità. Ma con i risparmi onoriamo i debiti. Nel 1992, però, non possiamo restituire un prestito di conduzione. E qui cominciano i guai più grossi. In azienda arriva l'ufficiale giudiziario. Ma in qualche maniera andiamo avanti».
Sviluppi. «Nel '95 porto in banca 100 milioni - rammenta ancora il marito vincendo l'emozione che l'assale - Sono certo di chiudere una volta per tutte. Neppure per sogno. Passano due mesi e quasi per caso vengo a sapere che ne vogliono altri 60. Intanto gli avvocati vanno avanti con le esecuzioni immobiliari. E decidono di mettermi all'asta, per quei dannatissimi pochi soldi, un patrimonio valutato un miliardo e 300 milioni. Mi oppongo e ancora adesso continuo a chiedere ai giudici di proteggermi da azioni che considero ingiuste. Proprio in questi giorni mi sono affidato a un legale. Dice che ce la possiamo fare perché conservo la documentazione dei prestiti sin dall'inizio».
Speranze. Quasi all'improvviso Vincenzo saluta la moglie e raggiunge quel che rimane delle sue terre. È qui che a un chilometro e mezzo dal paese, nella zona di Zinnigheddas, custodisce gli strumenti di lavoro arrugginiti. «C'è di tutto: erpici, serbatoi, spandiconcimi - sussurra - Ma ormai sono inservibili. Però, aspettate... venite dentro la serra: è là che coltivo. Certo non faccio più l'imprenditore agricolo, ma il prezzemolo è buono. Ne volete un mazzo? Ve lo regalo».
DALL'INVIATO PIER GIORGIO PINNA