Orgosolo, 28 nov 09 (La Nuova Sardegna) - È la lenta e dolorosa agonia di un sogno. Il crepuscolo di un progetto che, se condiviso politicamente e sostenuto con risorse adeguate, avrebbe contribuito a modificare profondamente la vita di quell'area economica e culturale che viene chiamata convenzionalmente, con un'espressione indefinita e onnicomprensiva, "zone interne". Di Rinascita 70, del modello di lavoro che questa società cooperativa cominciò a proporre in anni bui e difficili, nei quali le ciminiere di Ottana erano una speranza, ma anche un'incognita dopo il crollo dell'impero di Rovelli, si è quasi persa la memoria. Sta infatti lentamente svanendo il ricordo e il senso di un'esperienza straordinaria che pure fu punto di riferimento di un piano strategico della Cgil, che puntava a una modernizzazione del sistema agro-pastorale in Sardegna. Il progetto era quello di intaccare i tenaci legami con il passato e vincere le resistenze al cambiamento rappresentate da un'economia elementare, ma robusta e fortemente radicata, che ruotava intorno alla centralità della pecora.
Un patto politico. Oggi la protesta di Orgosolo sembra perdersi, anonimamente, nella mappa di una disperazione diffusa in tutto il Paese, nella quale svaniscono le differenze. Tra industria e pastorizia, tra agricoltura e terziario. Sembra infatti prevalere il vuoto, un'indistinto sentimento di angoscia e di rabbia, che inghiotte un'umanità che si muove con difficoltà nella palude delle incertezze e dell'assenza di prospettive. Eppure, dietro quei venti operai che, chiusi nel municipio di Orgosolo, chiedono venga onorato un patto politico sul quale si gioca il loro destino c'è una storia lunga e difficile che merita di essere ricordata e perciò rispettata.
E il punto di partenza non può non essere la testimonianza, raccolta poco meno di vent'anni fa, di un membro del consiglio d'amministrazione di Rinascita 70, Nicola Corria: «La nostra cooperativa venne formata nel maggio del 1976 da un pugno di giovani che cercava di organizzarsi per sfuggire alla disoccupazione e mandare avanti una propria idea di sviluppo. In Sardegna si era all'indomani del fallimento del primo piano di Rinascita». «A Orgosolo - prosegue la testimonianza di Corria -, dove tra la fine degli anni '60 e gli inizi degli anni '70 si era sedimentata una profonda disgregazione sociale. La nuova industrializzazione aveva regalato solo pochi posti di lavoro e le attività tradizionali, la pastorizia e l'agricoltura, subivano l'attacco inarrestabile della crisi».
L'idea nata a Orgosolo si inseriva nell'indirizzo strategico elaborato da Silvano Levrero, dell'ufficio di programmazione della Cgil, impostosi nel convegno di Foligno del novembre '78. L'idea era quella di una moderna "riforma agraria" in grado di svilupparsi grazie alle terre pubbliche. Per capire la portata dirompente dell'idea, basta ricordare che, nel 1982, in Sardegna le terre pubbliche corrispondevano a 516.281 ettari (il 21,45% della superficie totale dell'isola), dei quali ben 352.696 comunali.
Per dare un forte viatico politico alla proposta, la Cgil organizzò per il 20 gennaio 1982 un convegno a Orgosolo, presieduto dall'allora carismatico segretario generale Luciano Lama. In quel giorno grigio e di pioggia sottile e insistente, l'idea diventò proposta politica. Come disse in quell'occasione l'allora segretario della Cgil, Nellino Prevosto, non si discuteva di «ipotetico sviluppo», perché «si riconsegnava ai soggetti interessati, cioè i Comuni e le popolazioni, il potere di governo dei propri territori, il potere di programmare davvero il proprio sviluppo». Una programmazione dal basso, dunque, fondata da aggregazioni di tipo cooperativistico.
Ma ecco, in estrema sintesi, come era concepito lo schema base di questa nuova coop: l'ente pubblico proprietario del fondo, i lavoratori, il sindacato (che avrebbe dovuto fornire i supporti tecnici e di conoscenza) e una finanziaria per fornire il supporto economico all'impresa. I veri protagonisti sarebbero stati i produttori (cioè i braccianti) anche sul piano formale: a loro sarebbe infatti dovuta spettare la maggioranza in consiglio d'amministrazione. Una struttura che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto superare due strozzature strutturali dello sviluppo in agricolatura: la rendita parassitaria e l'interesse bancario.
L'offensiva diplomatica. Fu l'agronomo Salvatore Caone, del centro sudi regionale della Cgil, a portare avanti il progetto del sindacato nel centro Sardegna. Fu lui, infatti, a tessere la complessa rete diplomatica con amministrazioni e lavoratori in aree difficili e diffidenti rispetto al cambiamento. Ma nel gennaio del 1982 ben 17 comuni avevano aperto il dialogo con il sindacato e con i braccianti. Un rapporto che aveva fatto nascere ben 25 cooperative. I soci impegnati erano 645 e la superficie interessata dagli interventi era di 57.830 ettari.
Al convegno di Orgosolo Luciano Lama ricordò i quattro punti della rivoluzione che la Cgil voleva portare nelle campagne delle zone interne della Sardegna: 1) una nuova pastorizia condotta da allevatori professionalizzati e organizzati; 2) la nuova forestazione, realizzata dalla figura professionale del silvicoltore, e divisa in forestazione di ripristino ambientale e forestazione produttiva; 3) la nuova agricoltura, concentrata nell'irriguo, fondata soprattutto sull'orto-floro-frutticoltura e con una prospettiva nell'agrindustria; 4) lo sviluppo del turismo in questa nuova gestione integrata dell'ambiente.
Per tenere insieme questo progetto complesso serviva una malta forte, un cemento resistente. Cioè, la volontà politica. Ed è proprio quella che è mancata. Il "sistema", dopo il convegno di Villacidro del 1986, cominciò a indebolirsi e a sfarinarsi. Rinascita 70, modello e prototipo dell'esperimento, andò avanti con coraggio e fatica, ottenendo però anche importanti risultati. Ma sempre più in solitudine. Dimenticata. Evidentemente, in alcune importanti aree politiche una riforma culturale, economica e sociale delle campagne era più un facile slogan che una linea intelligente di modernizzazione delle zone interne.
Responsabilità pesanti. I lavoratori di Rinascita 70 hanno difeso la loro esperienza fino alle estreme conseguenze, fino a impegnare le loro stesse case. Per questo loro coraggio e per la loro fatica non meritano di essere considerati figli di un Dio minore nel drammatico scenario della crisi. Il "Progetto Supramonte", voluto da Renato Soru, era una strada possibile. Una speranza. Chi oggi, in sede politica, lo dimentica colpevolmente contribuisce a decretare la fine di una straordinaria esperienza umana e di lavoro.
PIERO MANNIRONI